...NEVER GIVE UP, NEVER GIVE IN...

venerdì 10 giugno 2011

Vanagloria

Tutti insieme raggiungemmo la cima della collina.
Dinnanzi a noi la valle, verde e rigogliosa, e lontano le montagne, coi picchi sporcati dall’ultima neve primaverile e i pendii coccolati dall’ombra delle nuvole.
Il cielo a macchie, azzurro e grigio, tempestato di nuvole ancora cariche di pioggia;
L’arcobaleno fa capolino tra le nubi, grande, infinito e colorato…si tuffa fra i campi, i villaggi, le strade: là, dove finisce, elfi e fate custodiscono gelosamente un forziere colmo d’oro da cui nasce l’arcata variopinta; suonano e danzano attorno alle monete e nell’aria frizzante regna l’armonia.
Qui, invece, regna la morte.
Stanchi e fieri ci ergiamo sulla collina, mirando la luce, le tenebre alle spalle; sotto i nostri piedi l’erba fluttua cullata dal vento, poco più sotto il pendio soffoca.
Una coltre di sangue, fango e viscere umane copre la terra, il tanfo della morte ammorba l’aria.
Una distesa di cadaveri, mutilati, martoriati, contorti e già biancastri è ciò che rimane di un esercito;
calano i corvi, dando vita a decine di banchetti funerei….si posano sulle carcasse, dividendosi le frattaglie.
Non può esserci giubilo davanti alla morte;
Silenziosi scrutiamo ciò che è il nostro futuro, lasciandoci amaramente alle spalle il passato.
Eravamo pochi..ma eravamo uniti.
Abbiamo aspettato la loro carica col cuore in gola, spade e gomiti stretti l’uno all’altro nel muro di scudi; mirando gli uomini, dimenticandoci dei vessilli che garrivano al vento, abbiam stretto le nostre anime in una catena che s’è fatta rete.
Le prede salivano, in file poco compatte, verso la collina.
Un alito di vento, il tonfo di una lacrima, lo scontro fra scudi.
Siamo scesi in corsa disposti a cuneo, penetrando le loro linee; dal fondo delle viscere sono risaliti ricordi, le sofferenze, le torture..il demone della guerra.
Spade mulinate, scudi serrati, asce al vento….il nemico macellato.
Siamo emersi dal pattume della mischia, elargendo morte e abbiam passato a fil di spada i morenti e i mutilati, seminando misericordia.
Li abbiamo spogliati delle armi, delle cotte di maglia meno arrugginite, degli elmi intatti…ci siam presi i loro bracciali, che da domani esporremo ai polsi con fierezza, mostrando ad un nuovo nemico il nostro valore.
E così, con la fronte madida di sudore, sentendo le piastre metalliche e la cotta che pesano sulle spalle, con la morte nel cuore e la vittoria in testa, osserviamo il verdeggiare di una primavera ostile.
Momenti così durano sempre troppo poco…prestò sarà domani, presto sarà battaglia.

venerdì 15 aprile 2011

La Fiera di Paese.

Intento ad affilare la spada con la cote, seduto, schiena al tronco, nell’amorevole abbraccio di una quercia, posso solo sentire l’eco lontano del berciare di paese.
Gente che arriva da tutte le vie: ragazzini in braccio alle madri, mandriani col gregge, carri di vettovaglie e pacchiane cianfrusaglie, uomini in tuniche di satin e altri in cotta di maglia.
Si stanno radunando vicino alla chiesa, in una squallida piazza adornata di fieno e lanterne, dove per qualche giorno troneggerà una fiera.
Bancarelle di ogni genere: formaggi dalle malghe, frutti e verdure dai campi, selvaggina dai boschi, birra, vino speziato ed idromele dai monasteri;
Legno intagliato, ferro battuto e lana filata.
Poi cavalli, pecore, bovini, polli e chissà quale grottesca bestia portata da sud, da est, da ovest.
Giocolieri, nani, ballerini, mangiafuoco, saltimbanchi, marionette….addomesticatori di orsi e prestigiatori.
Un turbinio di voci, grida, risa, spaventi, ammirazioni ed applausi tanto forte da aver scalato i pendii boscosi della mia montagna, arrivando ad inquinare il mio elucubrare.

Il solo pensiero di mischiarmi alla calca, di camminare fra gente festante,nobili agghindati ed impomatati, bambini sognanti e famiglie esultanti mi fa rizzare i capelli sulla nuca.
Provo un senso di rovesciamento…dello stomaco, s’intende; una sorta di travaso biliare continuo: spasmi e nausea.
Eppure son curioso.
Sello il mio frisone nero, m’infilo la cotta di maglia, i bracciali e la cappa, anch’essi del colore della notte.
La spada a una mano e mezza, la mia lama del bastardo, agganciata alla sinistra del cinturone, la daga alla destra.
Monto in sella e discendo il sentiero sassoso, frastagliato e snodato;
Mi porto all’ingresso del borgo e mi fermo a fissare la festa: i colori non cambiano.
Non oso fare un passo di più, come l’ombra di un platano mi ergo scuro e immobile ad osservare.
Altra gente sta arrivando, mi passa accanto, canticchia, ride, scherza e affretta il passo, mentre io resto fermo, lo sguardo piantato sui drappi colorati delle bancarelle.

Qualcuno mi riconosce; mi scrutano, guardano di traverso il bardo-orso che vive sulle loro montagne, solitario e tetro senza chiedere nulla, senza dare nulla.
Nessuno mi invita alla festa, nessuno mi chiede una canzone…più che per rispetto, presumo, per paura d’essere passato a fil di spada.
Lo sciamare sulla strada finisce, la fiera esulta, trabocca di gente; vessilli di ogni genere e fantasia garriscono al vento che s’è fatto teso.
Come sono venuto, me ne vado; giro il cavallo e riparto lento, greve e silenzioso…sarò sui monti per l’imbrunire, accenderò un fuoco vivo e vi girerò un cinghiale da condividere con chi davvero mi sa ascoltare e confortare: presumibilmente orsi, lupi e qualche fuorilegge.

venerdì 11 marzo 2011

Il Vento dei Lupi

Che stanchezza.
Con fare spossato muovo il mio corpo tra questi labirinti ingrigiti;
Un vento debole e gelido è l’unica cosa che possa farmi alzare la testa.
Lo sento, lo annuso, lo respiro…un canto lamentoso, una nenia struggente e caparbia, un inno di morte.
“Sto svanendo”, grida l’inverno dalle pagine di quella brezza; un inverno blando e spossato…incapace di affondare il colpo e ora evanescente.
Ed io come lui.
Foglie rinsecchite e polvere, mulinate a mezz’aria, portano via le braci di quel fuoco che era il mio animo.
Le mie parole, la mia spada affilata di acciaio nero, giacciono nella fodera; ne accarezzo l’elsa con fare rituale… ne brandisco l’impugnatura, fredda e granitica, senza tirare.
Nessuna scintilla, nessuna lama sguainata…non v’è nemico alcuno pronto ad arretrare di paura.
Il terrore ha abbandonato le strade, gli usci le alcove: solo apatia, grigiore e attesa.

Un lupo passa, si ferma, annusa.
Mi guarda incuriosito cercando il minimo segno d’emozione su quel mio volto calcareo, dalle sfumature cerulee.
“Nevicherà ancora” ,sembra dirmi con quegli occhi smaltati di ghiaccio, “l’inverno torna sempre”.
L’inverno torna sempre…tornerà la tormenta, la compassionevole coltre bianca tornerà a dar riposo alla terra; una trapunta gelata ci abbraccerà come ne fossimo i figli.
Ma farà ritorno la gloria? Affilerò ancora la spada? Mi troveranno ancora erto e fermo?

Spunta un sole cremisi tra le nuvole: sangue dal cielo, luce per occhi ciechi.
Attorno a me solo vento e qualche nube; blocchi neri mi avvolgono impedendo agli sguardi di farsi intrusi.
Tocco la terra e la sento gravida, ansimante, avvelenata.
Erutterà presto… siero incendiario e coltre di fumo, un’ode al silenzio.
Attendo le risa e il rumore perché arrivino, crescano e si faccian trucidare.

Mi son fatto uccidere e ora mi tocca rinascere: esule e ramingo aspetto una nave, vele nere e un orso sulla polena, con cui tornare.

giovedì 13 gennaio 2011

Un Brindisi All’Indifferenza

E giunse il giorno: quello del verdetto, della sentenza.
Oggi, poco dopo lo spuntar del sole, un consiglio di prelati, notabili e conti si riunirà per giudicarlo;
colui che ti vendette la morte, amico mio, ingrassando per bene e lentamente le sue casse.
Chissà quante baldracche, quanto vino e quanti piaceri gli avrai finanziato sciupandoti piano, nel silenzio e nella menzogna.
Ora che lo stato dovrebbe rigurgitare la sua rabbia repressa contro il malcapitato, capro espiatorio se pur in errore, ho come la sensazione che nessuna sentenza mi darà pace.
Cos’è una condanna se non una vana promessa di atroci rivalse burocratiche, che finisce per dissolversi nell’etere del quieto vivere?
Eppure non sono in me.
Mi infilo gli stivali, i guanti con le placche d’acciaio e la cotta di maglia; elmo, spada lunga e stiletto; Salirò a cavallo e mi porterò la, davanti al tribunale, in una viottola scura e muffosa, nell’ombra.
Nessuno osi pensare che ho destato la cotta di maglia per lui, fratello adorato! Di omuncoli pavidi e patetici suo pari ne ho affrontati a centinaia e, oggi come allora, potrei presentarmi a lui in braghe di tela, sorseggiando una doppio malto, per venderlo alla morte.
La spada, l’elmo e tutto l’armamentario sono per te, amico caro. In questa veste mi sento vicino a te, nel Valhalla.
Seduto fra gli eroi sorseggiando idromele, presumo, ti godi la scene del tuo allibratore che rischia la gogna.
So bene che la giustizia latiterà anche oggi; farà una fugace e futile comparsa a cavallo delle vesti dei magistrati, per poi sparire come neve al sole al momento della condanna.
Per questo dovrei aspettarlo fuori, attenderne l’uscita e piombargli addosso come un nibbio su un roditore; sorprendere le guardie, fissarlo così inerme e cupido di pietà, alzare la spada al cielo degli Dei e calarla sul suo cranio.
Ma non ne ho intenzione. Io, figlio di Thor, lascerò riposare il tuono.
La mia vendetta, oggi come non mai, è l’indifferenza; lascerò che quel gretto individuo si umili davanti all’universo piangendo misericordia, invocando grazia.
Oggi sarò la… ma sarò la per te, fratello mio; Che il mio odio aleggi nell’aria e possa ristagnare per sempre nel suo cuore divorandolo.
Tra poche ore sarà tutto finito e saremo seduti ai piedi della tua, o meglio la nostra, quercia: spalle al tronco e occhi all’infinito; una coppa d’idromele al cielo e un brindisi al domani.

martedì 14 dicembre 2010

Il Dito Del Fato

“…Buongiorno da Palazzo Madama, sono le 8:53 e tra poco cominceranno le discussioni di voto che porteranno alla tanto annunciata richiesta di fiducia da parte del governo…”
La radio sfrigola, intercetta un’altra frequenza poi torna sulle parole dell’inviato; la spengo.
Arrivo nei pressi del Senato, parcheggio, prendo zaino e cartellino; passo a pochi metri dal reporter che stavo ascoltando prima, tronfio ed emozionato racconta la grande agenda politica di oggi.
Il governo sta per cadere: chiederà la fiducia per cercare di restare pateticamente attaccato agli sgonfi salva genti di una nave che sta già colando a picco.
Ma è il loro mestiere; assomigliano a diverse specie di insetti che passano la vita a farsi il bozzolo, senza mai cambiare pianta.
Dall’altra parte un’opposizione ignobile e indegna cerca di riprendersi le sedie di El Dorado, creando le più aberranti alleanze tanto per superare in numero l’esecutivo.
Passando per il piazzale davanti alla sede del Senato assisto ad uno spettacolo socio-faunistico unico.
L’ala più impomatata del parlamento assomiglia parecchio ad uno zoo; al posto di orsi, cammelli e pinguini si vedono ruffiani, portaborse, raccatta-voti, notai e avvocati di partito, spie, sbirraglia…un bell’ambientino.
Arrivo sul lato del palazzo, davanti alle porte del cantiere.
I celerini visionano il cartellino, mi squadrano, abbozzano una perquisizione, mi lasciano entrare.
Pochi istanti per salutare qualche carpentiere, depistando troppe occhiate, e sono dentro.
Le cantine di Palazzo Madama.
Da 23 giorni percorro avanti e in dietro questi cunicoli, li conosco a memoria, anche al buio.
Si sono domandati perché un giovane insegnante di storia si sia dato alla manovalanza; oggi avranno la risposta.
Da tre settimane abbondanti sfrutto la copertura del cantiere per preparare il mio regalo di natale alla classe dirigente: ho piazzato esplosivo rudimentale in tutti i tunnel della cripta, malamente collegato con quel poco che ricordo di elettronica.
Qualche amico ha fornito il materiale, il tempo e la pazienza mi han permesso di finire…una crisi di governo? L’occasione migliore.
Arrivo nella sala più grande delle cantine dove ho sistemato il detonatore, mi siedo accanto ad una pila di esplosivo, la schiena appoggiata ad una colonna; accendo l’MP3, qualcuno nelle cuffie urla una melodia veloce e rabbiosa…stappo una bottiglia di rossa trappista, del Belgio.
Una doppelbock spillata fresca, in un pub immerso tra le montagne della Baviera sarebbe stata meglio, ma tant’è.
Un sorso e la corposa rossa è dimezzata; raccolgo il detonatore e lo guardo: c’è incisa un a lettera, la sua.
Lei era mia.
Era giovane e bella, piena di vita, di forza e di volontà; stava manifestando, 8 mesi fa, contro la riforma della scuola. Da brava ricercatrice universitaria chiedeva allo stato che non venisse accoltellato il futuro suo e dei suoi colleghi.
La polizia caricò, senza ritegno, senza remore…forti di manganello e bastone falciarono il corteo con quella rabbia malata che in natura si vede solo sotto una divisa nero-blu.
Le spaccarono le ossa, quasi tutte.
Quattro operazioni la riportarono tra i vivi ma la misero su di una sedia a rotelle: per sempre.
All’idea d’esser tornata così, pensò che sarebbe stato meglio restare all’inferno e, a poco a poco, lasciandosi sfiorire, vi tornò.
Il giorno che ne salutai le ceneri, spargendole sui monti che avevano visto nascere il nostro amore, giurai vendetta.
Oggi il governo cerca di restare in piedi, l’opposizione prova ad abbatterlo…hanno bisogno di tutti i voti possibili, ci saranno statisti e portaborse ovunque; il palazzo brulica.
Accarezzo quel telecomando, ora più che mai simbolo del controllo sul prossimo, stappando la seconda rossa belga.
Mi accendo una Marlboro, l’ultima sigaretta del giustiziato.
Ma oggi non sono il condannato, no. Oggi sono giudice, giuria e boia…sparirò con loro, con tutti loro…non sarò ne latitante ne carne da patibolo. L’unico latitante oggi è lo Stato.
Lo Stato, il sistema…il becero parassita che da sempre disossa le carni imputridite dei contribuenti ingrassando a vista d’occhio, la bestia sanguinaria che ammazza e reprime, quella scure…così pesante e affilata, che abbattendosi sul collo della mia vita ha portato con se tutto ciò che avevo.
Lei…me l’hanno portata via; l’hanno calpestata, dilaniata, ammazzata. E l’unica giustizia che un regolar processo m’ha garantito è quella di poter sperare in una causa ventennale dalla quale riceverò, forse, una parca ricompensa.
Ma oggi il processo è mio. Veloce e definitivo, senza gradi ne appello… l’unico verdetto possibile: vendetta!
Scolata la terza ed ultima birra mi ritrovo con la testa sulla colonna, guardando in alto, piangendo.
Perché piango? Perché penso a lei? Perché sto per salutare il mondo che una volta vivevo con fierezza? Perché in fondo so che sto per ammazzare centinaia di persone? Perché la birra è finita?
Chi lo sa. Non so neanche come finirà.
Immagino che parleranno di un folle, un decerebrato…un deluso dalla vita, un inetto che credeva in colpe che il buon Stato non ha e se ne vendica in modo vigliacco.
Chissà quanta parte di popolo, imbonita dalla tv, sarà con loro.
Non fa nulla; io oggi sono il popolo.
Mi asciugo le lacrime, un pensiero veloce a lei (chissà se c’è un posto in cui ci incontreremo…come ciarlano i preti), un pensiero veloce a tutti,un vago sorriso e il dito sull’interruttore.
Di sopra s’è animata la contesa, le stanze piene, gli uffici e il piazzale stracolmi; il presidente del Senato prende la parola per riportare la bagarre su vie meno indignitose… tutto trema, tutto crolla. Fine.

venerdì 5 novembre 2010

D’un Nero Sfavillante

È strano come ogni cosa, ogni sentimento, ogni presunzione e forse anche ogni oggetto, possa cambiare forma spostando la luce della lanterna che l’illumina.
Così pensava il bardo, procedendo lento e dritto in sella, seppur stanco, tra le braccia della nebbia.
Pensò a fiorini e genovini d’oro, duramente guadagnati suonacchiando qua e la, che aveva speso per procurarsi quella tanto cara livrea.
Stivali, brache, mantello e guanti eran stati facili da reperire, di un nero acceso; ma per la cotta di maglia brunita, qualche scaglia d’armatura nera, cappello di cuoi bollito e lana, foderi e sacche dello stesso oscuro colore, aveva speso quello che un cavaliere errante dilapida in un anno per sfamar se stesso e il suo cavallo.
“Almeno mi darà protezione, nella foresta notturna”,aveva pensato….ma ora, fra la grigia nebbia accesa da un lontano sole, la sua figura, nera ed enorme, risaltava come un ombra su di un muro biancastro; mentre a starsene ben nascosti dietro alla coltre vi riuscivano meglio i lebbrosi, avvolti nei loro grigi stracci mendicati qua e la, più con le minacce di contagio che chiedendo generosa carità.
E lo stesso era stato la mattina.
“Con questo mio abito tetro ed incupito, terrò alla larga il gregge”, aveva asserito il bardo, pensando alla gente del paese.
E sulle prime gli parve d’averci preso, vedendo tutti segnarsi al suo passaggio; ma oltre ai clericali e scaramantici gesti, i popolani si dilungavano in lunghe occhiate chirurgiche, mentre i bambini facevano goffamente a gara per seguirlo senza farsi notare.
Era l’attrazione del villaggio.
“Maledizione” ,pensò, “e io che credevo di restare un’ombra; son la macchia d’inchiostro su di una pergamena bianca!”

La realtà gli disse che a volersi defilar per forza, ci si mette in mezzo alla piazza; a forza di cercar viottole sempre più piccole, si finisce per girovagare in tutto il paese, diventando cosa nota a qualsiasi uscio.
Per un macabro scherzo del destino, invece, i membri di quel gregge bistrattato, tanto ansiosi di mettersi in mostra, finiscono per comportarsi tutti secondo regola sparendo nella totalità.
Loro che bramano un palco, ricevon solo un posto in platea, in mezzo agli altri capi di bestiame, tutti dannatamente uguali fra loro.
Ecco la moral dannata che un’anima nera cerca in ogni frivola storia: chi spende la vita a farsi unico per lasciare la pubblica piazza, finisce per trovarsi sulla bocca di tutti, sotto i loro occhi dentro i loro stupidi pensieri.
E chi di fama vivrebbe si trova, senza metterci troppo zelo, intrappolato fra le spire della massa, come i lebbrosi si riscoprono protetti nel mantello della nebbia.

mercoledì 6 ottobre 2010

Quell'anima lontana

Una piazza gremita, la folla arringa e vocifera.
Mi guardo intorno tra passanti, rigattieri, venditori del niente e allibratori.
Gente che passa, dame che sfilano, vite che annaspano.
Lo sguardo volteggia e non trova compare alcuno a cui porgere un saluto; io fra questa gente non trovo fedeli, nemici o possibili interlocutori.
Mi chiedo se sia io il problema, perché queste anime s’accozzano senza darmi segno d’intesa? Fuggo lontano, laddove i miei pensieri prendono forma, voce e colore; da solo all’ombra di un pino compongo canzoni, aspettando che una di esse mi dica che fare.
Le querce, le fiere e le nubi mi ascoltano, impazziscono di vita nello scenario che tra la testa mia ed il cuore prende forma.
Ad un tratto il lampo.
Appoggio liuto e mantello su di una roccia, mi reco ai piedi dell’abete più alto ed inizio la scalata.
Un’ascesa verso il cielo, una mano davanti all’altra, ramo per ramo…il cielo si fa vicino.
Giunto sulla punta scruto l’orizzonte e, mentre i monti a nord sembrano spingermi benevoli a voltarmi, una brezza leggera obbliga il mio sguardo a girarsi.
La pianura è immensa, colorata e senza confine alcuno; qua e la macchie rosso mattone indicano villaggi, strade grigie e vitrei canali contornano i campi all’infinito.
La giornata è limpida e lo sguardo coglie terre lontane, lande profonde si uniscono col cielo in un miraggio di colori.
Da la, da sud, un vento caldo e benevolo mi porta gli odori di luoghi sconfinati; come una mano morbida e delicata mi accarezza le gote, mi bacia il naso.
Un sussulto rapido e artigli frenetici nella carne del cuore…il fiato mi viene a mancare.
È lei, la sento, riconosco il suo richiamo: quell’anima lontana mi sta chiedendo d’ascoltarla.
Ed io emozionato porgo l’orecchio a quel canto; c’è davvero un’essenza mia simile, una compagna di viaggio, da qualche parte la infondo!
Lidi diversi, luoghi in antitesi…scenari opposti hanno partorito due forze che si attraggono, si comprendono e, forse, completano.
L’idillio è breve, funesto e rinfrescante….mal digerisco il distacco, ben contento ne aspetto il ritorno.
Salgo spesso sull’abete incantato ad aspettare il tocco di quel vento; a volte tarda, altre non si fa vivo, ma quando appare, portando con se la gioia di mille stelle in festa, mi investe come l’onda sugli scogli, e come quell’acqua la mia anima spuma accogliendone l’urto.
È così, che fra la gente a me assai vicina scorgo solo animi lontani ed indifferenti, mentre all’altro capo del cielo, qualcuno inventa parole da porgermi come ancora di salvezza.