...NEVER GIVE UP, NEVER GIVE IN...

martedì 14 dicembre 2010

Il Dito Del Fato

“…Buongiorno da Palazzo Madama, sono le 8:53 e tra poco cominceranno le discussioni di voto che porteranno alla tanto annunciata richiesta di fiducia da parte del governo…”
La radio sfrigola, intercetta un’altra frequenza poi torna sulle parole dell’inviato; la spengo.
Arrivo nei pressi del Senato, parcheggio, prendo zaino e cartellino; passo a pochi metri dal reporter che stavo ascoltando prima, tronfio ed emozionato racconta la grande agenda politica di oggi.
Il governo sta per cadere: chiederà la fiducia per cercare di restare pateticamente attaccato agli sgonfi salva genti di una nave che sta già colando a picco.
Ma è il loro mestiere; assomigliano a diverse specie di insetti che passano la vita a farsi il bozzolo, senza mai cambiare pianta.
Dall’altra parte un’opposizione ignobile e indegna cerca di riprendersi le sedie di El Dorado, creando le più aberranti alleanze tanto per superare in numero l’esecutivo.
Passando per il piazzale davanti alla sede del Senato assisto ad uno spettacolo socio-faunistico unico.
L’ala più impomatata del parlamento assomiglia parecchio ad uno zoo; al posto di orsi, cammelli e pinguini si vedono ruffiani, portaborse, raccatta-voti, notai e avvocati di partito, spie, sbirraglia…un bell’ambientino.
Arrivo sul lato del palazzo, davanti alle porte del cantiere.
I celerini visionano il cartellino, mi squadrano, abbozzano una perquisizione, mi lasciano entrare.
Pochi istanti per salutare qualche carpentiere, depistando troppe occhiate, e sono dentro.
Le cantine di Palazzo Madama.
Da 23 giorni percorro avanti e in dietro questi cunicoli, li conosco a memoria, anche al buio.
Si sono domandati perché un giovane insegnante di storia si sia dato alla manovalanza; oggi avranno la risposta.
Da tre settimane abbondanti sfrutto la copertura del cantiere per preparare il mio regalo di natale alla classe dirigente: ho piazzato esplosivo rudimentale in tutti i tunnel della cripta, malamente collegato con quel poco che ricordo di elettronica.
Qualche amico ha fornito il materiale, il tempo e la pazienza mi han permesso di finire…una crisi di governo? L’occasione migliore.
Arrivo nella sala più grande delle cantine dove ho sistemato il detonatore, mi siedo accanto ad una pila di esplosivo, la schiena appoggiata ad una colonna; accendo l’MP3, qualcuno nelle cuffie urla una melodia veloce e rabbiosa…stappo una bottiglia di rossa trappista, del Belgio.
Una doppelbock spillata fresca, in un pub immerso tra le montagne della Baviera sarebbe stata meglio, ma tant’è.
Un sorso e la corposa rossa è dimezzata; raccolgo il detonatore e lo guardo: c’è incisa un a lettera, la sua.
Lei era mia.
Era giovane e bella, piena di vita, di forza e di volontà; stava manifestando, 8 mesi fa, contro la riforma della scuola. Da brava ricercatrice universitaria chiedeva allo stato che non venisse accoltellato il futuro suo e dei suoi colleghi.
La polizia caricò, senza ritegno, senza remore…forti di manganello e bastone falciarono il corteo con quella rabbia malata che in natura si vede solo sotto una divisa nero-blu.
Le spaccarono le ossa, quasi tutte.
Quattro operazioni la riportarono tra i vivi ma la misero su di una sedia a rotelle: per sempre.
All’idea d’esser tornata così, pensò che sarebbe stato meglio restare all’inferno e, a poco a poco, lasciandosi sfiorire, vi tornò.
Il giorno che ne salutai le ceneri, spargendole sui monti che avevano visto nascere il nostro amore, giurai vendetta.
Oggi il governo cerca di restare in piedi, l’opposizione prova ad abbatterlo…hanno bisogno di tutti i voti possibili, ci saranno statisti e portaborse ovunque; il palazzo brulica.
Accarezzo quel telecomando, ora più che mai simbolo del controllo sul prossimo, stappando la seconda rossa belga.
Mi accendo una Marlboro, l’ultima sigaretta del giustiziato.
Ma oggi non sono il condannato, no. Oggi sono giudice, giuria e boia…sparirò con loro, con tutti loro…non sarò ne latitante ne carne da patibolo. L’unico latitante oggi è lo Stato.
Lo Stato, il sistema…il becero parassita che da sempre disossa le carni imputridite dei contribuenti ingrassando a vista d’occhio, la bestia sanguinaria che ammazza e reprime, quella scure…così pesante e affilata, che abbattendosi sul collo della mia vita ha portato con se tutto ciò che avevo.
Lei…me l’hanno portata via; l’hanno calpestata, dilaniata, ammazzata. E l’unica giustizia che un regolar processo m’ha garantito è quella di poter sperare in una causa ventennale dalla quale riceverò, forse, una parca ricompensa.
Ma oggi il processo è mio. Veloce e definitivo, senza gradi ne appello… l’unico verdetto possibile: vendetta!
Scolata la terza ed ultima birra mi ritrovo con la testa sulla colonna, guardando in alto, piangendo.
Perché piango? Perché penso a lei? Perché sto per salutare il mondo che una volta vivevo con fierezza? Perché in fondo so che sto per ammazzare centinaia di persone? Perché la birra è finita?
Chi lo sa. Non so neanche come finirà.
Immagino che parleranno di un folle, un decerebrato…un deluso dalla vita, un inetto che credeva in colpe che il buon Stato non ha e se ne vendica in modo vigliacco.
Chissà quanta parte di popolo, imbonita dalla tv, sarà con loro.
Non fa nulla; io oggi sono il popolo.
Mi asciugo le lacrime, un pensiero veloce a lei (chissà se c’è un posto in cui ci incontreremo…come ciarlano i preti), un pensiero veloce a tutti,un vago sorriso e il dito sull’interruttore.
Di sopra s’è animata la contesa, le stanze piene, gli uffici e il piazzale stracolmi; il presidente del Senato prende la parola per riportare la bagarre su vie meno indignitose… tutto trema, tutto crolla. Fine.

venerdì 5 novembre 2010

D’un Nero Sfavillante

È strano come ogni cosa, ogni sentimento, ogni presunzione e forse anche ogni oggetto, possa cambiare forma spostando la luce della lanterna che l’illumina.
Così pensava il bardo, procedendo lento e dritto in sella, seppur stanco, tra le braccia della nebbia.
Pensò a fiorini e genovini d’oro, duramente guadagnati suonacchiando qua e la, che aveva speso per procurarsi quella tanto cara livrea.
Stivali, brache, mantello e guanti eran stati facili da reperire, di un nero acceso; ma per la cotta di maglia brunita, qualche scaglia d’armatura nera, cappello di cuoi bollito e lana, foderi e sacche dello stesso oscuro colore, aveva speso quello che un cavaliere errante dilapida in un anno per sfamar se stesso e il suo cavallo.
“Almeno mi darà protezione, nella foresta notturna”,aveva pensato….ma ora, fra la grigia nebbia accesa da un lontano sole, la sua figura, nera ed enorme, risaltava come un ombra su di un muro biancastro; mentre a starsene ben nascosti dietro alla coltre vi riuscivano meglio i lebbrosi, avvolti nei loro grigi stracci mendicati qua e la, più con le minacce di contagio che chiedendo generosa carità.
E lo stesso era stato la mattina.
“Con questo mio abito tetro ed incupito, terrò alla larga il gregge”, aveva asserito il bardo, pensando alla gente del paese.
E sulle prime gli parve d’averci preso, vedendo tutti segnarsi al suo passaggio; ma oltre ai clericali e scaramantici gesti, i popolani si dilungavano in lunghe occhiate chirurgiche, mentre i bambini facevano goffamente a gara per seguirlo senza farsi notare.
Era l’attrazione del villaggio.
“Maledizione” ,pensò, “e io che credevo di restare un’ombra; son la macchia d’inchiostro su di una pergamena bianca!”

La realtà gli disse che a volersi defilar per forza, ci si mette in mezzo alla piazza; a forza di cercar viottole sempre più piccole, si finisce per girovagare in tutto il paese, diventando cosa nota a qualsiasi uscio.
Per un macabro scherzo del destino, invece, i membri di quel gregge bistrattato, tanto ansiosi di mettersi in mostra, finiscono per comportarsi tutti secondo regola sparendo nella totalità.
Loro che bramano un palco, ricevon solo un posto in platea, in mezzo agli altri capi di bestiame, tutti dannatamente uguali fra loro.
Ecco la moral dannata che un’anima nera cerca in ogni frivola storia: chi spende la vita a farsi unico per lasciare la pubblica piazza, finisce per trovarsi sulla bocca di tutti, sotto i loro occhi dentro i loro stupidi pensieri.
E chi di fama vivrebbe si trova, senza metterci troppo zelo, intrappolato fra le spire della massa, come i lebbrosi si riscoprono protetti nel mantello della nebbia.

mercoledì 6 ottobre 2010

Quell'anima lontana

Una piazza gremita, la folla arringa e vocifera.
Mi guardo intorno tra passanti, rigattieri, venditori del niente e allibratori.
Gente che passa, dame che sfilano, vite che annaspano.
Lo sguardo volteggia e non trova compare alcuno a cui porgere un saluto; io fra questa gente non trovo fedeli, nemici o possibili interlocutori.
Mi chiedo se sia io il problema, perché queste anime s’accozzano senza darmi segno d’intesa? Fuggo lontano, laddove i miei pensieri prendono forma, voce e colore; da solo all’ombra di un pino compongo canzoni, aspettando che una di esse mi dica che fare.
Le querce, le fiere e le nubi mi ascoltano, impazziscono di vita nello scenario che tra la testa mia ed il cuore prende forma.
Ad un tratto il lampo.
Appoggio liuto e mantello su di una roccia, mi reco ai piedi dell’abete più alto ed inizio la scalata.
Un’ascesa verso il cielo, una mano davanti all’altra, ramo per ramo…il cielo si fa vicino.
Giunto sulla punta scruto l’orizzonte e, mentre i monti a nord sembrano spingermi benevoli a voltarmi, una brezza leggera obbliga il mio sguardo a girarsi.
La pianura è immensa, colorata e senza confine alcuno; qua e la macchie rosso mattone indicano villaggi, strade grigie e vitrei canali contornano i campi all’infinito.
La giornata è limpida e lo sguardo coglie terre lontane, lande profonde si uniscono col cielo in un miraggio di colori.
Da la, da sud, un vento caldo e benevolo mi porta gli odori di luoghi sconfinati; come una mano morbida e delicata mi accarezza le gote, mi bacia il naso.
Un sussulto rapido e artigli frenetici nella carne del cuore…il fiato mi viene a mancare.
È lei, la sento, riconosco il suo richiamo: quell’anima lontana mi sta chiedendo d’ascoltarla.
Ed io emozionato porgo l’orecchio a quel canto; c’è davvero un’essenza mia simile, una compagna di viaggio, da qualche parte la infondo!
Lidi diversi, luoghi in antitesi…scenari opposti hanno partorito due forze che si attraggono, si comprendono e, forse, completano.
L’idillio è breve, funesto e rinfrescante….mal digerisco il distacco, ben contento ne aspetto il ritorno.
Salgo spesso sull’abete incantato ad aspettare il tocco di quel vento; a volte tarda, altre non si fa vivo, ma quando appare, portando con se la gioia di mille stelle in festa, mi investe come l’onda sugli scogli, e come quell’acqua la mia anima spuma accogliendone l’urto.
È così, che fra la gente a me assai vicina scorgo solo animi lontani ed indifferenti, mentre all’altro capo del cielo, qualcuno inventa parole da porgermi come ancora di salvezza.

lunedì 26 aprile 2010

Se sapessi cantare, intonerei per te qualche nota.
Se sapessi dipingere, disegnare modellare, non esiterei a fare di te un ritratto imperturbabile nel tempo.
Purtroppo so solo scrivere (e neanche tanto bene) per cui, mi limito a ricordarti con quattro parole alla meno peggio infilate.

Se solo penso che mentre m'addormentavo, col coraggio d'esser afflito dai miei pensieri e sofferente per essi, tu da solo ti accasciavi e il mondo lasciavi...
da solo con te stesso, senza nessuno che ti giudicasse, ti frenasse, ti ponesse limite: così ti sei spento. Così hai vissuto.
Trent'anni vissuti al duecento per cento, sulla cresta di una vita che a lungo hai rifiutato;
Non ti volevi bene, ma te ne volevamo tutti...mi hai cresciuto infondo, ci sei sempre stato, pronto ad offrirmi una birra e una grassa risata.
Come posso ricordarti se non ridendo di gusto, con le lacrime dure che mi tagliano il volto?

Non so che dire, non so dvavero che dire...sei stato tanto, sarai per sempre parte di me.

Addio.

mercoledì 14 aprile 2010

Fatiscenza...

Il muro tace; sulle stantie pietre s'avventa il muschio comprendo i chiodi nudi...ai quali pochi fogli rimangono appesi.

Al di qualcun ritorno, sarà ridotto ad un rudere.

Saluti.

martedì 30 marzo 2010

Addio stagione, addio speranza

Che idiota sono stato.
Come un novello Napoleone all’inverso ho atteso che l’inverno arrivasse presto a darmi conforto.
Il gelo e il buio, la terra laida sotto la coltre bianca, i monti addormentati fra lenzuola di nebbia, i boschi spenti dei colori estivi svaniti, l’aria leggera e frizzante…questa l’anima del campo di battaglia a me più congeniale.
Potevo muovermi agile sulle distese imbiancate, mimetizzarmi fra i rami secchi degli alberi, farmi scudo delle stalattiti di ghiaccio pendenti dalla roccia; così simile al mio cuore, il paesaggio diveniva luogo di vittoria per le mie battaglie.
Ma ho perso tempo. 
Nulla è cambiato, niente s’è mosso, nessun sentimento stantio e rappreso è stato spazzato via dalla bora impetuosa; solo ricoperto fu dalla neve, e ora riaffiora.
Maledetto sole, viene la primavera e tu la farai da padrone con le tue lunghe ore di transito, interminabili mostre di luce che i miei demoni risvegliano.
Si fa cruenta ora la battaglia e mi ritrovo su un terreno ostico, inesplorato e inutile.
Le truppe scomparse, il coraggio disarcionato dal corsiero del divenire, il vagabondare sempre più lontano…e qua solo catene; dure, grevi e arrugginite stringono i polsi, m’abbracciano il collo e mi trascinano a terra.
Torneranno i fiori attorno a me, mi guarderanno ridenti mentre finisco schiacciato dagli eventi, col rammarico di non aver librato la spada quando potevo.
Ora sono in terra d’altri, fuori dal mio tempo...respingerò continui attacchi, lenirò le ferite con l’ultimo siero rabbioso che resta.
Benvenuto all’inferno: la battaglia che ho fin ora condotto non è nulla se confrontata alla guerra di trincea che mi aspetta.
Solo e disperato, battuto e sconsacrato patirò i tremori dell’attesa e lo schianto degl’altrui colpi.
Non fosse che per scudo mi resta solo il corpo e quel che rimane delle mie arcaiche convinzioni…sottile e leggiadro drappo di seta.
Aspettando le nere asce del nemico.

venerdì 19 marzo 2010

Ode all'anacronismo e alla nostalgia.

Guardatevi intorno, ditemi cosa vedete.
Che sia il mio sguardo traviato, corrotto, annebbiato?
Vedo solo morti viventi che camminano fra le rovine del pensiero, agitati beoti sbattano la testa sui muri di calce della cultura imbiancata, resa ricordo e angusto segreto per coloro che si credono uomini.
Arrivismo e cannibalismo, meritocrazia dimenticata, spavaldi cani da riporto si guadagnano l’osso compiacendo il padrone, abili menti vengono spente in un torpore di noia quasi fossero pericolose. Sono pericolose.
Tutto ciò che è capire, chiedersi, crescere…quello che non risulta remunerativo, proficuo o indottrinante viene sepolto da mari di cenere, onde nefaste di corallo deturpato.

Mi sento ripetere cose che già so, qualcosa che sento particolarmente mio, una teoria che per me non fu altro che verità: nacqui nell’epoca sbagliata.
“Ti avrei visto bene nel circo dei leoni conciato da gladiatore, o a fare la rivoluzione in Francia” mi han sempre detto.
“Meglio seduto su una roccia, spada infoderata accanto a me, penna di nibbio nella mano e un fogliaccio raccattato chissà dove per annotare qualche verbo striminzito…così banale e magico da poter cantare quello che sento” penso io, comunque da un'altra parte, in un altro tempo.
Non qua a rodermi il fegato (come se non ci avesse già pensato Bacco) davanti allo spettacolo indecente del ciarpame iniquo, e di natura bifolca, che è l’uomo d’oggi; gretto a prescindere.
L’unico lupo in grado di uccidere un suo simile…e non certo per i morsi della fame.
Idioti, godetevi il tempo del niente, restateci pure e ingrassate ingrassandolo, maq lasciatemi l’arcano!
Non osate varcar la soglia che fa da confine fra il vostro e il mio mondo, dimenticatemi immerso nelle mie rievocazioni, nel mio romanticismo riluttante.
Nostalgico e melanconico rifiuto i mostri di pietra, le paure d’acciaio ricovero delle membra stanche, prigione delle manti annebbiate dai fasci redentori della luce padronale; guardo il tramonto morire in una linea arancione che spezza il sopraggiungente nero della notte e l’ombra dei monti, pensando a come l’avrà ammirata, assaporata e cantata un mio collega d’altri tempi; l’uomo giusto al momento giusto…così abile da capirne la magnificenza, così spavaldo nel cantarla agli altri.
Magari in una nebbiosa e lercia osteria in cambio del più pessimo dei vini.
Quanto avrei voluto essere quell’uomo…come mi ci sarei trovato bene nel ruolo!

venerdì 5 marzo 2010

All’onor non si comanda.

Un fatiscente palazzaccio dai muri grigiastri, finestre scure coperte da ante vecchie e diroccate ed una porta assuefatta di solchi e macchie di ogni genere costituivano lo stanco corpo di un’osteria di fuori porta.
Al suo interno la gente del volgo beve vino scadente e birra rancida, litiga, s’azzuffa, impreca….s’apparta con le donnacce nelle stanze da letto, ancor più putride del salone.
In cambio di riparo, cibo e qualche boccale, il Bardo suona e canta le sue storie, deridendo i potenti, sbeffeggiando i soverchiatori, cosicché oltre a divertirsi la gente si preoccupi anche di offrirgli da bere.
Nel fondo della sala una giovane donna, fiera ed aggraziata, discute con una sorta d’individuo, un bifolco troppo stordito da Bacco per capire cosa ella stia dicendo e ancor di più per andarsene da solo.
Non fatica la donzella a tenerlo a bada, scaltra e determinata, ma dopo ore di galoppo anche il migliore dei corsieri ha da tirare il fiato; come il quadrupede sfiancato, anche lei non ne può più e, più per il nervoso che per la disperazione, le scappa una lacrima, una sola, che scende e le solca il viso.
La luce delle lampade ad olio si staglia contro quella goccia di traboccante agitazione, lasciando partire una sorta di cuspide magica; un bagliore diretto che veloce giunge all’occhio del Cantore, il quale ripone la chitarra, cammina veloce sul lungo tavolo di quercia incurante dell’altrui caraffe, si dirige verso il bifolco e senza avvertimento alcuno lo prende a due mani per il bavero schiantandolo al muro.
Pochi secondi passati a fissarsi negli occhi e poi la tempesta; un turbinio di colpi e grida, escono i coltelli dalle fodere, si spaccano le sedie, scricchiolano le ossa, sgorga il primo sangue.
All’aprirsi del vecchio portone un fascio chiaro accende le brune sterpaglie, e alle ghiande per i maiali va a far compagnia lo zoticone, scaraventatoci dritto dal Bardo.
Soddisfatto e un po’ ammaccato si sfrega le mani, il Cantastorie, come se si pulisse dalla sozzeria lasciatagli addosso dall’individuo; ma ecco che arriva il locandiere che gli sbatte addosso chitarra, mantello e spada intimandogli di andarsene.
A quanto pare l’oste gradisce le risse finché i pugni scaturiscono da mani paganti, quando è un girovago da sfamare a spaccare teste, ecco che l’occasione per liberarsene è servita.
Ricomposte le vesti e controllato lo strumento maltrattato il Bardo si incammina verso il bosco, più nero che mai.
Si volta sentendo il mantello tirare e vede la donna sbigottita che lo fissa ansiosa di dirgli qualcosa.
“Non tentare di ringraziarmi” le dice freddo “dubito che le tue parole possano addolcire la notte che passerò a difendermi dai lupi, tanto meno leniranno i lividi. Ne capiteranno ancora di episodi di questa sorta, visto e considerato lo schifo che fa il mondo…almeno cambierà il soggetto visto che quello di prima avrà da fare per cercare fra le ghiande i denti persi.”
Così detto il Cantore si volta e s’avvia nelle tenebre lasciando la damigella di fuori porta scossa e dubbiosa; né un nome né un improbabile recapito le resta, solo il ricordo di uno sconosciuto immolatosi per l’onor suo.

venerdì 26 febbraio 2010

Le Nostalgiche Comari

Un bar sulla strada, ampie vetrate e tavolini fuori, ora che torna il tiepido primaverile.
Ad uno di essi, tondo e bianco di ferro battuto, due figure sorseggiano e scrutano.
Il primo, vestito grigio, bastone di legno laccato nero e bombetta, guarda con sdegno e diffidenza i passanti accarezzando un intarsiato bicchiere di cristallo pieno a metà di un whiskey scozzese.
L’altro, stivali, braghe e cotta neri, mantello dello stesso colore, tiene saldo per il manico un boccale di ferro grezzo dal quale erutta la pastosa schiuma di una robusta birra scura e sta curvo, gomiti sul tavolo, a fissare la strada con malizioso ghigno di sfida.
Non una parola per alcuni istanti fra i due, fino a quando il possente giovane dal mantello nero dice sarcastico: “toh, guarda che belli che sono…divisa da lavoro, obbiettivi comuni, un’unica strada; trionfo della varietà ovina”.
Il compare con fare elegante sorseggia e lascia partire un malinconico: “eeeh, bei tempi quelli in cui la gente osava pensare col proprio cranio”.
“ Quando un calesse percorre un sentiero, non si cura di badare alle formiche che lo attraversano” riprende il primo “passa e schiaccia, valutando inconsciamente l’inutilità del microscopico ostacolo.
Ora, amico mio, dimmi perché noi non dovremmo fare lo stesso con quegli insetti dei nostri simili…banali ed unificati fantasmi degli esseri che furono, immagini. Istantanee di un mondo che degrada secondo la mancanza d’intelletto dei molti. Salviamo i pochi, spazziamo il resto.”
Finito il whiskey la figura ottocentesca fissa l’omone quasi medioevale e risponde: “ son tanti caro mio….troppi ed inutili. Meglio evitarli chiudendoci nella nostra grandezza; soffriremo forse la solitudine ma avremo la soddisfazione di specchiarci col sorriso…maledicendo il giorno che abbiam rischiato di divenire come loro, benedicendo il momento in cui siam rimasti grandi ed esuli.”
“Hai ragione infondo” asserisce l’altro “però mi fanno una rabbia…la sento, la covo e la vorrei sfogare eliminando con cruenta precisione ognuno di loro. E non solo…demolirei le loro istituzioni, darei alle fiamme la loro non-cultura; passerei volentieri la vita a seminare il panico fra di loro.”
“ E devi farlo per forza con la spada, Bardo?” chiede il poeta maledetto.
“Non puoi semplicemente infilare la tua penna di nibbio dentro al loro orgoglio? Ne sei capace, lo sappiamo bene; scava dentro di te, raccontati, analizzati….e condannali.”
Eeeh, bei tempi quelli in cui si risolveva tutto nella lizza” ironizza il cantore.
“Ora ci tocca di riempire chilometri di carta con le nostre storie, i nostri aneddoti, i nostri racconti…dipingerci sul foglio per raccontare loro quanto loro stessi sonno inferiori.
Fortunatamente nessuno può toglierci l’ardire di scrivere, caro mio, e noi onoreremo tale possibilità infilando l’acuminata lettera nell’oblio della loro mente.
E se poi non avessero di che soffrire, non capendo la direzione del nostro verbo, avremo la possibilità di fare dei proseliti un giorno”.
Sorridendo conclude il suo monologo dicendo: “ehhh bei tempi, quelli in cui la lotta non era un lusso per pochi cervelli”.
L’impettito e fiero poeta ottocentesco chiede un altro giro delle stesse delizie e al loro arrivo, con gesto fine e deciso, alza il bicchiere all’amico dedicando a lui e a se stesso quel brindisi, confermando: “eeeh sì, bei tempi”.

martedì 16 febbraio 2010

Il Carnevale all'Alba.

Una nuova alba.
Il sole appena spuntato entra di forza fra le fessure delle vecchie ante, marcite al sole, abbandonate al vento.
Come un lama di ambra color dell’ocra, entra il raggio del domani che luce da ad ogni angolo della stanza dove il bardo dorme; spossato e frastornato egli apre gli occhi quasi incredulo, tastandosi il volto per accertarsi d’essere ancora su quello schifoso mondo lasciato ad annegare nel profumo della buona birra la sera prima.
Un poco assonnato ma irto sugli arti, va verso l’uscita meravigliandosi di se stesso.
Niente testa fra le gambe oggi, niente incubi diurni, solo un vano sorriso stampato fra le fronde della barba.
Esce svelto, portando con se spada, carta e penna di nibbio; si guarda attorno sorridendo a quel tiepido sole invernale che illumina le colline tutt’intorno ingiallendole di luce.
Poco più avanti contadini già stanchi vanno trascinando il carretto assieme ai loro maiali, la cosa a cui più tengono, per la quale la maggior parte ha venduto i propri figli all’esercito e le figlie alle luride mani dei possidenti lor padroni.
Guarda e scrive il nostro cantore, intento ad ammirare le bellezze di una natura così categorica e assente nonostante il suo far circondariale, da accostarsi alla bruttura di una società scarna e uguale…piatta, laida e rassegnata.
Ragazzine si vendono nelle osterie, baldi giovani partono per cercare fortuna tra i briganti, vecchi sciatti s’annegano in quel che rimane del fondo più putrido del vino più scadente.
E de’ padroni non fanno scempio.
Proprio uno di quei nobiluomini ferma il bardo e gli chiede:
 ''Ehi menestrello, canta qualcosa alla mia dama qui presente…ti guadagnerai qualche soldo''.
Dopo aver squadrato la coppia di signori imbellettati il cantastorie risponde:
''A quanto pare lor signori non sfruttano la magnificenza delle loro ampie biblioteche…lasciate che, senza chiedere compenso alcuno, io vi insegni un po’ della lingua corrente.
Quella che vi da braccetto e che voi chiamate dama, nell’esattezza linguistica si chiama baldracca;
provate anche voi su… bal-drac-ca. ripetete con me! Perché di questo si tratta; vendeva le sue carni ai bavosi di un’osteria famosa nella prossima città…un paesotto nel quale m’ha già portato il mio errare e dove m’han detto che la puttana più famosa del circondario, se l’era battuta col signorotto di qui, caduto nella trappola come un povero cretino, ammaliato come suino davanti alle rape.
Coprirla d’oro e vesti non ha cambiato la sua natura, come girare con un libro sgualcito sotto braccio non cambia la vostra.
Lei rimane una baldracca mentre voi restate uno “sciagurato” che la passa per dama. ''

Finito l’avvelenato discorso il nobile estrae la spada per sfidare a duello il bardo che però gli vola al collo disarmandolo e attaccandolo al muro come un cotechino in stagionatura.
''Lasciate perdere lor signore'' sussurra il cantore.
''La pellaccia ho intenzione di lasciarvela…toltavi la maschera da giullare esce al sole la faccia da scemo del villaggio. Tutti quanti vi si inchinano ma per quanto mi riguarda la dignità l’avete persa…come il buon gusto per le donne.
Andrò in un’altra città credetemi, non starò qua a cantar del nobile e la dama. E su, fate un sorriso, perché stasera brinderò a voi messere, più d’una volta! Perché alle vostre “dame” preferisco una damigiana.''

Così detto il bardo lasciò il possidente a terra tremante come una foglia, avviandosi per le colline fischiettando, canticchiando e annotando con penna di nibbio gli spettacoli che la natura gli offre…unica consolazione per il suo animo, grande prova del fatto che forse un errore nell’evolversi c’è stato.

lunedì 8 febbraio 2010

Signori lettori, amici carissimi...mi sarebbe piaciuto iniziare la settimana impiccando al muro uno dei miei guaiti ma...davvero, piuttosto che intagliare banali giri di giostra, preferisco salutare e passar la mano...

forse non ho nulla da abbaiare perché la notte non l'ho passata a rivoltarmi sulla branda...son stato sveglio fino al mattino, nel "castello" d'un "cavaliere" amico, guardando il torneo più importante del reame (il Super Bowl, ehehehe)

e tifando lo scontro, ingurgitando birra ed esultando ad ogni botta beh...son tornato un poco vivo.

certo, passeggera mascherina idiota...momentaneo antiinfiammatorio, una specie di specchietto per le allodole del mio scorgere.

Bardo, guarda e divertiti...oggi non pensare.

Massì, una sorta di vacanza.

lunedì 1 febbraio 2010

Un Muro Biancastro.

Un muro biancastro, ecco cosa vedo.
Se provo a dar forma al mio presente, ecco che mi trovo a rappresentare sulla tela dell’inganno un muraccio alto e spesso, liscio e candido di un biancume apatico. Né scritte né segni e questo rende inequivocabile la mia sentenza: non è il muro del Bardo.
Dove sono le tele, le pergamene, le vernici, i colori? Dove posso scorgere i tagli, i graffi, le picconate del verbo…dove?
Da nessuna parte…ogni singolo centimetro di questa muraglia insipida è bianco, liscio e vuoto.
Mi trovo dritto e impassibile a due passi da quel confine tra illogico e noioso, tra vero e falso; lo fisso impietrito ma con gli occhi sgranati e pieni di quella rabbia, finalmente, ritrovata. Tira un venticello beffardo che tenta invano di rendere festosa e carnevalesca la lugubre atmosfera, alzando qua e là petali, aghi e sabbia.
Coi capelli struscianti sul volto e le vesti impazzite, resto fermo e valuto il nemico.
Nessun cavaliere all’orizzonte, non c’è banda di bravi alcuna…niente da distruggere, nessuno da spadare, solo un muro da guardare;
parrebbe facile… ma per me, bardo guerriero votato alla lotta, in cerca, forse, più di un sacrificio intriso di vanagloria che di una reale vendetta, resta assai complesso il dover affrontare una cinta fatta d’apatia e rigore…una muraglia che gli altri dicono da me, nel sonno dei sensi, sia stata creata.
Razionale misurazione degli eventi? Spasmodica ricerca della redenzione? Forse accettazione?
Rido, scoppia una risata che mai così forte s’era sentita, perché di quelle parole neanche voglio far pensiero! No, no, no…niente arrendevoli consegne della dignità, chiamate in altro modo per imbellettarne la forma;
niente stucchevoli ritorni sui propri passi, per chiedere alla fanghiglia di accettarmi di nuovo tra le sue fila.
Fin qui son arrivato, di certo andrò avanti.
Ho errato per anni fra le pieghe della mente mia ed altrui, tra le spossate vicissitudini dell’umano divenire, intriso di curiosità e timore ho percorse tutte le strade a me possibili per capire chi avevo davanti e combatterlo.
Ho viaggiato in lungo e in largo, spada nella fodera e penna di nibbio alla mano, annotando ciò che imparavo, raccontando ciò che vedevo, cantando ciò che sentivo.
Non sarà certo un patetico muricciolo a fermare il mio cammino.
Quasi annoiato e col senso di veder ripetersi qualcosa tra le vene, prendo la rincorsa.
Attendo che la brezza invernale mi dia il segnale…al ché partirò correndo, con tutta la mia foga, spiccherò il più poderoso dei salti buttandomi anima e corpo contro quel muro.
Lo schianto darà fatale esito…per lui, ovviamente.
Il boato sarà tale che tutte le genti lo potranno avvertire, ma ancor più alto sarà il mio urlo, il solito urlo di battaglia, il più liberatorio degli sfoghi.
Come il falchetto attende fermo che gli venga tolto il cappuccio, per librarsi in volo a caccia di prede da smembrare, io aspetto di vedere quella insulsa parete cadere per mia mano…voglio solo questo, bramo solo di poter demolire quel muro bianco e laido, fatto delle mie convinzioni, delle mie illusioni…dei miei limiti;della parte ora inutile e scialba del mio animo.

lunedì 25 gennaio 2010

Venite Pure Avanti...

Come, Signori? Come dite?
Si dico a voi, figure imbellettate di giorno, cani spauriti nelle tenebre…voi là in fondo, avete paura di avvicinarmi? Beh, lor signori, se mi temete, perché mi giudicate?
Oh per la carità non v’affannate a negare; il sasso io l’ho visto volare, qualcuno l’ha lanciato…ne conosco la traiettoria, so da dove è partito e ancor più che la sua parabola, mi da i nervi dover costatare che la mano lanciante s’è ritratta nell’ombra.
Voi piccoli, stupidi, vuoti e piatti regolari vi siete permessi di giudicare me…non è vero? Le mie vesti non sono curate, il mio parlare vi suona strano…i miei racconti vi fanno male.
Feriscono nell’orgoglio la vostra bieca bassezza esaltata a ragion di vita dai miei versi infausti, neri come la pece, infilati tra una vostra richiesta di patetica compassione ed un vostro eccesso di boria.
Bene, se di boria n’avete…uscite ora! Uscite da li dietro cani, e venite alla luce.
Il gretto individuo lascivo e schivo che voi dipingete in me è qua che v’aspetta per regolarla, la cosa; avete forse paura? E di che? Siete tanti, parlate tanto, giudicate….non siete i pilastri della nostra società? Bene, tastiamone la robustezza…che se disgraziatamente dovessi frantumarvi, avrei preso due aquile con un leprotto.
Perché oltre a regolare il mio personalissimo conto, affogandolo naturalmente nel vostro sangue, farei crollare quel sovra sistema che reggete sulla gobba.
Lo so signori…non potete permetterlo, per questo non mostrate il fianco.
Beh, non crediate che sia questo a fermarmi! Vi seguirò, vi scruterò e lo farò per sempre…analizzando il marciume del quale siete composti vi schernirò, toglierò ai vostri figli l’onirica possibilità di essere orgogliosi di voi, un giorno.
Vi getterò nell’oblio dei perdenti…la giù, in fondo al nero bitume che vi si confà…griderete pietà, mendicherete compassione e io vi guarderò strisciare ai miei piedi, aspettando che la vostra lercia mano sia ad un dito dai miei stivali per infilarvi la spada nel collo, proprio sotto la nuca.
Uscite su, da quell’angolino, venite al mio tavolo…vi offro da bere, con quei pochi mezzi di cui dispongo. 
Beviamo insieme e brindiamo al nostro scontro…che c’è da temere? Se credete d’esser nel giusto, non avete nulla di che lagnarvi.
Venite, venite…e bevete tutti, che al momento opportuno sarà per me un piacere vedere il mio vino, mischiato al vostro sangue, scorrere sulla mia spada….lungo filo fino all’elso, traboccante dalle vostre viscere.
Almeno avrò la soddisfazione di aver tirato fuori qualcosa di buono, da voi.

venerdì 15 gennaio 2010

Dirimpettaio di Me Stesso

Mi guardo dal balcone di fronte, mi vedo strano, penso, giudico. 
Metto il naso nei miei affari, do una valutazione alla mia vita…fermo, implacabile, inflessibile.
Non me la racconto, non ne ho bisogno…vedo le cose e le descrivo, mi conosco e mi posso criticare, come esaltare.
Dal mio balcone vedo la mia porta, un ragazzo alto e grosso esce fiero, scende le scale.
Un tipo perso dietro libri di storia e romanzi, dietro alla musica, all’ideale politico, a tante cose che ne fanno quasi un esiliato. 
Un fiero migrante ostracizzato da quella società fatta di piattume e ridicolaggine, tanto odiata quanto scansata da lui per primo; son lontane le feste, gli amori, le ragazzate…vedo un tipo alienato, distratto, lucido e confuso.
Lucido nell’analisi di un mondo da buttare, confuso nel chiedersi come l’uomo possa godere di una tale pochezza d’animo.
Giudica perché si sente in alto, lo fa perché è immaturo…fiero di quell’immaturità che la morale vede come valore da disadattato, che lui giudica come un bene primario, utile, tanto utile per tenere lontana l’iniquità della massa.
Guardando quel pazzo, vestito di un costume che accanto agli altri pare carnevalesco, penso ad un recluso, un intellettualoide, un inetto della vita.
Lo seguo, lo scruto e trovo invece la pazzia, gli sport estremi, il pogo dei concerti, le bevute, le tante risse quasi sempre in difese di qualcuno che neanche conosce.
Un distaccato Robin Hood moderno, freddo e cinico, senza pietà né compassione, che odia l’assistenzialismo quanto l’oppressione. Si scalda, scoppia, non si ritira mai, combatte, sbaglia…sbaglia tanto, si rialza, si vendica, chiede scusa. Un turbinio di emozioni, molte negative, lo portano a domandarsi per quanto ancora dovrà farsi carico dell’altrui stupidità, e della sua veemenza.
Alcuni lo amano, lo venerano quasi…molti lo odiano, molto pochi han l’ardire o la pazzia di mettercisi contro.
Mentre tutti cercano una storia, la divisa, i valori da telefilm per teen-agers quel folle si gongola della solitudine, valutandone l’unicità.

Ultimamente son costretto a pedinarlo più del solito, sta cambiando è altalenante…ogni tanto si ferma, piange, trema…perfino ama. Ma come di consueto fa le cose al contrario degli schemi, si fa carico di demoni altrui, fa tutto ciò che l’uomo medio rifiuta, nell’ambito affettivo così come nella vita.
Ne soffre ma lotta, sanguina e spera.
Si rifugia nei non luoghi, tra le pagine dei libri, tra le note delle canzoni; sorretto da se stesso tira avanti e guarda me. Sa che lo scruto e lui scruta me; come dargli torto? Ci apparteniamo, ci condividiamo, analizziamo e giudichiamo….siamo entrambi giudice, giuria e boia di noi stessi e l’un dell’altro.
Interessato ed impaurito continuo nevrotico a fargli da ombra, a tenerlo d’occhio…infondo è questo il mio compito: sono il dirimpettaio di me stesso.

lunedì 11 gennaio 2010

Quattro Nere Pareti.

Quattro nere pareti, il lugubre sfondo del mio teatro dell’assurdo.
Una stanza buia, il palco dove quasi ogni notte mi esibisco nella patetica parte di colui che rimugina, rimesta, rimpiange.

Steso sul letto, altare sacrificale, occhi spalancati e impotenti nelle tenebre, mi immagino vuoto mentre un liquido mi riempie, come una botte…sale, su fino all’orlo…ricordi, pensieri.
Una lacrima sbuca fra palpebra e bulbo oculare, come la lingua del ghiacciaio avanza lenta e gelida, solcando la terra , creando la valle: un altro squarcio sul volto.
Ed ecco che in quel momento il rancoroso demone dell’agonia mi erutta dal ventre, infila la mano violenta nel petto, afferra il mio cuore e per quello mi trascina dentro me stesso.
Un involuzione balenante…mi trovo, con una sorta di fantasma del passato accanto a mirar due quadri, due scene.
Nella prima vedo il bardo di qualche tempo fa che cinico e spietato ritrae il mondo e la sua vigliaccheria, descrivendone la gretta condizione e la pochezza d’animo.
Fiero e spregevole para qualsiasi colpo del nemico, tira brucianti affondi nel ventre dell’ipocrisia, squarcia le carni della morale, ghignando e starnazzando frasi di disprezzo.
Nell’altra lo vedo, pochi istanti fa, steso sul letto…occhi sgranati nel buio, corpo immobile; una lacrima gli solca il viso.
Che scena patetica…mentre la storia avanza, col mondo agonizzante ridotto ad un ciarpame, guazzabuglio di mediocrità, lui sta lì…a compatirsi, a rimuginare ad aspettare che la noia e la stanchezza gli ridonino il sonno. 
Inerme come un cadavere che attende il freddo becco dei corvi, lascia che la gloria esploda attorno a lui.
Distrutto da quella visione mi ci butto, come se tentassi di ammazzarlo…mi sveglio e mi ritrovo in quella scena, dalla parte dell’attore.

Sono autore, direttore e pubblico della mia iniquità, maestro del mio divenire carne da macello per quel futuro che mostra solo disarmo.
Niente sacrificio, niente vittoria…nessun sacrificio, nessuna gloria.
Quel folle gesto che non oso fare è la chiave per quel radioso futuro che tanto inseguo e la mia rabbia, balenante come una spada, non sa se trafiggere il primo bersaglio a tiro o il braccio stesso che la muove.
Registro questa notte tra la muffa delle memorie: è un’immagine, sarà parola.
Di certo domani avrò scordato metà di ciò che ho in mente, ma ciò che ho nel cuore sarà ancora tale: la stessa melma, il medesimo ardore.

11 Gennaio 2010 ...11 anni dopo.

Riservo uno spazieto del muro per ricordare colui che, più di altri, mi ha insegnato che le aprole possono rappresentare, oltre che il mondo, l'animo e le gesta morali delle persone...

Un saluto a colui che dipingeva la pace col pennello del caos, deridendo la morte, piangendo la vita...

Ciao Faber, sei stato uno di quelli da te cantati "che al cielo ed alla terra mostrarono il coraggio."