...NEVER GIVE UP, NEVER GIVE IN...

martedì 30 marzo 2010

Addio stagione, addio speranza

Che idiota sono stato.
Come un novello Napoleone all’inverso ho atteso che l’inverno arrivasse presto a darmi conforto.
Il gelo e il buio, la terra laida sotto la coltre bianca, i monti addormentati fra lenzuola di nebbia, i boschi spenti dei colori estivi svaniti, l’aria leggera e frizzante…questa l’anima del campo di battaglia a me più congeniale.
Potevo muovermi agile sulle distese imbiancate, mimetizzarmi fra i rami secchi degli alberi, farmi scudo delle stalattiti di ghiaccio pendenti dalla roccia; così simile al mio cuore, il paesaggio diveniva luogo di vittoria per le mie battaglie.
Ma ho perso tempo. 
Nulla è cambiato, niente s’è mosso, nessun sentimento stantio e rappreso è stato spazzato via dalla bora impetuosa; solo ricoperto fu dalla neve, e ora riaffiora.
Maledetto sole, viene la primavera e tu la farai da padrone con le tue lunghe ore di transito, interminabili mostre di luce che i miei demoni risvegliano.
Si fa cruenta ora la battaglia e mi ritrovo su un terreno ostico, inesplorato e inutile.
Le truppe scomparse, il coraggio disarcionato dal corsiero del divenire, il vagabondare sempre più lontano…e qua solo catene; dure, grevi e arrugginite stringono i polsi, m’abbracciano il collo e mi trascinano a terra.
Torneranno i fiori attorno a me, mi guarderanno ridenti mentre finisco schiacciato dagli eventi, col rammarico di non aver librato la spada quando potevo.
Ora sono in terra d’altri, fuori dal mio tempo...respingerò continui attacchi, lenirò le ferite con l’ultimo siero rabbioso che resta.
Benvenuto all’inferno: la battaglia che ho fin ora condotto non è nulla se confrontata alla guerra di trincea che mi aspetta.
Solo e disperato, battuto e sconsacrato patirò i tremori dell’attesa e lo schianto degl’altrui colpi.
Non fosse che per scudo mi resta solo il corpo e quel che rimane delle mie arcaiche convinzioni…sottile e leggiadro drappo di seta.
Aspettando le nere asce del nemico.

venerdì 19 marzo 2010

Ode all'anacronismo e alla nostalgia.

Guardatevi intorno, ditemi cosa vedete.
Che sia il mio sguardo traviato, corrotto, annebbiato?
Vedo solo morti viventi che camminano fra le rovine del pensiero, agitati beoti sbattano la testa sui muri di calce della cultura imbiancata, resa ricordo e angusto segreto per coloro che si credono uomini.
Arrivismo e cannibalismo, meritocrazia dimenticata, spavaldi cani da riporto si guadagnano l’osso compiacendo il padrone, abili menti vengono spente in un torpore di noia quasi fossero pericolose. Sono pericolose.
Tutto ciò che è capire, chiedersi, crescere…quello che non risulta remunerativo, proficuo o indottrinante viene sepolto da mari di cenere, onde nefaste di corallo deturpato.

Mi sento ripetere cose che già so, qualcosa che sento particolarmente mio, una teoria che per me non fu altro che verità: nacqui nell’epoca sbagliata.
“Ti avrei visto bene nel circo dei leoni conciato da gladiatore, o a fare la rivoluzione in Francia” mi han sempre detto.
“Meglio seduto su una roccia, spada infoderata accanto a me, penna di nibbio nella mano e un fogliaccio raccattato chissà dove per annotare qualche verbo striminzito…così banale e magico da poter cantare quello che sento” penso io, comunque da un'altra parte, in un altro tempo.
Non qua a rodermi il fegato (come se non ci avesse già pensato Bacco) davanti allo spettacolo indecente del ciarpame iniquo, e di natura bifolca, che è l’uomo d’oggi; gretto a prescindere.
L’unico lupo in grado di uccidere un suo simile…e non certo per i morsi della fame.
Idioti, godetevi il tempo del niente, restateci pure e ingrassate ingrassandolo, maq lasciatemi l’arcano!
Non osate varcar la soglia che fa da confine fra il vostro e il mio mondo, dimenticatemi immerso nelle mie rievocazioni, nel mio romanticismo riluttante.
Nostalgico e melanconico rifiuto i mostri di pietra, le paure d’acciaio ricovero delle membra stanche, prigione delle manti annebbiate dai fasci redentori della luce padronale; guardo il tramonto morire in una linea arancione che spezza il sopraggiungente nero della notte e l’ombra dei monti, pensando a come l’avrà ammirata, assaporata e cantata un mio collega d’altri tempi; l’uomo giusto al momento giusto…così abile da capirne la magnificenza, così spavaldo nel cantarla agli altri.
Magari in una nebbiosa e lercia osteria in cambio del più pessimo dei vini.
Quanto avrei voluto essere quell’uomo…come mi ci sarei trovato bene nel ruolo!

venerdì 5 marzo 2010

All’onor non si comanda.

Un fatiscente palazzaccio dai muri grigiastri, finestre scure coperte da ante vecchie e diroccate ed una porta assuefatta di solchi e macchie di ogni genere costituivano lo stanco corpo di un’osteria di fuori porta.
Al suo interno la gente del volgo beve vino scadente e birra rancida, litiga, s’azzuffa, impreca….s’apparta con le donnacce nelle stanze da letto, ancor più putride del salone.
In cambio di riparo, cibo e qualche boccale, il Bardo suona e canta le sue storie, deridendo i potenti, sbeffeggiando i soverchiatori, cosicché oltre a divertirsi la gente si preoccupi anche di offrirgli da bere.
Nel fondo della sala una giovane donna, fiera ed aggraziata, discute con una sorta d’individuo, un bifolco troppo stordito da Bacco per capire cosa ella stia dicendo e ancor di più per andarsene da solo.
Non fatica la donzella a tenerlo a bada, scaltra e determinata, ma dopo ore di galoppo anche il migliore dei corsieri ha da tirare il fiato; come il quadrupede sfiancato, anche lei non ne può più e, più per il nervoso che per la disperazione, le scappa una lacrima, una sola, che scende e le solca il viso.
La luce delle lampade ad olio si staglia contro quella goccia di traboccante agitazione, lasciando partire una sorta di cuspide magica; un bagliore diretto che veloce giunge all’occhio del Cantore, il quale ripone la chitarra, cammina veloce sul lungo tavolo di quercia incurante dell’altrui caraffe, si dirige verso il bifolco e senza avvertimento alcuno lo prende a due mani per il bavero schiantandolo al muro.
Pochi secondi passati a fissarsi negli occhi e poi la tempesta; un turbinio di colpi e grida, escono i coltelli dalle fodere, si spaccano le sedie, scricchiolano le ossa, sgorga il primo sangue.
All’aprirsi del vecchio portone un fascio chiaro accende le brune sterpaglie, e alle ghiande per i maiali va a far compagnia lo zoticone, scaraventatoci dritto dal Bardo.
Soddisfatto e un po’ ammaccato si sfrega le mani, il Cantastorie, come se si pulisse dalla sozzeria lasciatagli addosso dall’individuo; ma ecco che arriva il locandiere che gli sbatte addosso chitarra, mantello e spada intimandogli di andarsene.
A quanto pare l’oste gradisce le risse finché i pugni scaturiscono da mani paganti, quando è un girovago da sfamare a spaccare teste, ecco che l’occasione per liberarsene è servita.
Ricomposte le vesti e controllato lo strumento maltrattato il Bardo si incammina verso il bosco, più nero che mai.
Si volta sentendo il mantello tirare e vede la donna sbigottita che lo fissa ansiosa di dirgli qualcosa.
“Non tentare di ringraziarmi” le dice freddo “dubito che le tue parole possano addolcire la notte che passerò a difendermi dai lupi, tanto meno leniranno i lividi. Ne capiteranno ancora di episodi di questa sorta, visto e considerato lo schifo che fa il mondo…almeno cambierà il soggetto visto che quello di prima avrà da fare per cercare fra le ghiande i denti persi.”
Così detto il Cantore si volta e s’avvia nelle tenebre lasciando la damigella di fuori porta scossa e dubbiosa; né un nome né un improbabile recapito le resta, solo il ricordo di uno sconosciuto immolatosi per l’onor suo.