...NEVER GIVE UP, NEVER GIVE IN...

venerdì 26 febbraio 2010

Le Nostalgiche Comari

Un bar sulla strada, ampie vetrate e tavolini fuori, ora che torna il tiepido primaverile.
Ad uno di essi, tondo e bianco di ferro battuto, due figure sorseggiano e scrutano.
Il primo, vestito grigio, bastone di legno laccato nero e bombetta, guarda con sdegno e diffidenza i passanti accarezzando un intarsiato bicchiere di cristallo pieno a metà di un whiskey scozzese.
L’altro, stivali, braghe e cotta neri, mantello dello stesso colore, tiene saldo per il manico un boccale di ferro grezzo dal quale erutta la pastosa schiuma di una robusta birra scura e sta curvo, gomiti sul tavolo, a fissare la strada con malizioso ghigno di sfida.
Non una parola per alcuni istanti fra i due, fino a quando il possente giovane dal mantello nero dice sarcastico: “toh, guarda che belli che sono…divisa da lavoro, obbiettivi comuni, un’unica strada; trionfo della varietà ovina”.
Il compare con fare elegante sorseggia e lascia partire un malinconico: “eeeh, bei tempi quelli in cui la gente osava pensare col proprio cranio”.
“ Quando un calesse percorre un sentiero, non si cura di badare alle formiche che lo attraversano” riprende il primo “passa e schiaccia, valutando inconsciamente l’inutilità del microscopico ostacolo.
Ora, amico mio, dimmi perché noi non dovremmo fare lo stesso con quegli insetti dei nostri simili…banali ed unificati fantasmi degli esseri che furono, immagini. Istantanee di un mondo che degrada secondo la mancanza d’intelletto dei molti. Salviamo i pochi, spazziamo il resto.”
Finito il whiskey la figura ottocentesca fissa l’omone quasi medioevale e risponde: “ son tanti caro mio….troppi ed inutili. Meglio evitarli chiudendoci nella nostra grandezza; soffriremo forse la solitudine ma avremo la soddisfazione di specchiarci col sorriso…maledicendo il giorno che abbiam rischiato di divenire come loro, benedicendo il momento in cui siam rimasti grandi ed esuli.”
“Hai ragione infondo” asserisce l’altro “però mi fanno una rabbia…la sento, la covo e la vorrei sfogare eliminando con cruenta precisione ognuno di loro. E non solo…demolirei le loro istituzioni, darei alle fiamme la loro non-cultura; passerei volentieri la vita a seminare il panico fra di loro.”
“ E devi farlo per forza con la spada, Bardo?” chiede il poeta maledetto.
“Non puoi semplicemente infilare la tua penna di nibbio dentro al loro orgoglio? Ne sei capace, lo sappiamo bene; scava dentro di te, raccontati, analizzati….e condannali.”
Eeeh, bei tempi quelli in cui si risolveva tutto nella lizza” ironizza il cantore.
“Ora ci tocca di riempire chilometri di carta con le nostre storie, i nostri aneddoti, i nostri racconti…dipingerci sul foglio per raccontare loro quanto loro stessi sonno inferiori.
Fortunatamente nessuno può toglierci l’ardire di scrivere, caro mio, e noi onoreremo tale possibilità infilando l’acuminata lettera nell’oblio della loro mente.
E se poi non avessero di che soffrire, non capendo la direzione del nostro verbo, avremo la possibilità di fare dei proseliti un giorno”.
Sorridendo conclude il suo monologo dicendo: “ehhh bei tempi, quelli in cui la lotta non era un lusso per pochi cervelli”.
L’impettito e fiero poeta ottocentesco chiede un altro giro delle stesse delizie e al loro arrivo, con gesto fine e deciso, alza il bicchiere all’amico dedicando a lui e a se stesso quel brindisi, confermando: “eeeh sì, bei tempi”.

martedì 16 febbraio 2010

Il Carnevale all'Alba.

Una nuova alba.
Il sole appena spuntato entra di forza fra le fessure delle vecchie ante, marcite al sole, abbandonate al vento.
Come un lama di ambra color dell’ocra, entra il raggio del domani che luce da ad ogni angolo della stanza dove il bardo dorme; spossato e frastornato egli apre gli occhi quasi incredulo, tastandosi il volto per accertarsi d’essere ancora su quello schifoso mondo lasciato ad annegare nel profumo della buona birra la sera prima.
Un poco assonnato ma irto sugli arti, va verso l’uscita meravigliandosi di se stesso.
Niente testa fra le gambe oggi, niente incubi diurni, solo un vano sorriso stampato fra le fronde della barba.
Esce svelto, portando con se spada, carta e penna di nibbio; si guarda attorno sorridendo a quel tiepido sole invernale che illumina le colline tutt’intorno ingiallendole di luce.
Poco più avanti contadini già stanchi vanno trascinando il carretto assieme ai loro maiali, la cosa a cui più tengono, per la quale la maggior parte ha venduto i propri figli all’esercito e le figlie alle luride mani dei possidenti lor padroni.
Guarda e scrive il nostro cantore, intento ad ammirare le bellezze di una natura così categorica e assente nonostante il suo far circondariale, da accostarsi alla bruttura di una società scarna e uguale…piatta, laida e rassegnata.
Ragazzine si vendono nelle osterie, baldi giovani partono per cercare fortuna tra i briganti, vecchi sciatti s’annegano in quel che rimane del fondo più putrido del vino più scadente.
E de’ padroni non fanno scempio.
Proprio uno di quei nobiluomini ferma il bardo e gli chiede:
 ''Ehi menestrello, canta qualcosa alla mia dama qui presente…ti guadagnerai qualche soldo''.
Dopo aver squadrato la coppia di signori imbellettati il cantastorie risponde:
''A quanto pare lor signori non sfruttano la magnificenza delle loro ampie biblioteche…lasciate che, senza chiedere compenso alcuno, io vi insegni un po’ della lingua corrente.
Quella che vi da braccetto e che voi chiamate dama, nell’esattezza linguistica si chiama baldracca;
provate anche voi su… bal-drac-ca. ripetete con me! Perché di questo si tratta; vendeva le sue carni ai bavosi di un’osteria famosa nella prossima città…un paesotto nel quale m’ha già portato il mio errare e dove m’han detto che la puttana più famosa del circondario, se l’era battuta col signorotto di qui, caduto nella trappola come un povero cretino, ammaliato come suino davanti alle rape.
Coprirla d’oro e vesti non ha cambiato la sua natura, come girare con un libro sgualcito sotto braccio non cambia la vostra.
Lei rimane una baldracca mentre voi restate uno “sciagurato” che la passa per dama. ''

Finito l’avvelenato discorso il nobile estrae la spada per sfidare a duello il bardo che però gli vola al collo disarmandolo e attaccandolo al muro come un cotechino in stagionatura.
''Lasciate perdere lor signore'' sussurra il cantore.
''La pellaccia ho intenzione di lasciarvela…toltavi la maschera da giullare esce al sole la faccia da scemo del villaggio. Tutti quanti vi si inchinano ma per quanto mi riguarda la dignità l’avete persa…come il buon gusto per le donne.
Andrò in un’altra città credetemi, non starò qua a cantar del nobile e la dama. E su, fate un sorriso, perché stasera brinderò a voi messere, più d’una volta! Perché alle vostre “dame” preferisco una damigiana.''

Così detto il bardo lasciò il possidente a terra tremante come una foglia, avviandosi per le colline fischiettando, canticchiando e annotando con penna di nibbio gli spettacoli che la natura gli offre…unica consolazione per il suo animo, grande prova del fatto che forse un errore nell’evolversi c’è stato.

lunedì 8 febbraio 2010

Signori lettori, amici carissimi...mi sarebbe piaciuto iniziare la settimana impiccando al muro uno dei miei guaiti ma...davvero, piuttosto che intagliare banali giri di giostra, preferisco salutare e passar la mano...

forse non ho nulla da abbaiare perché la notte non l'ho passata a rivoltarmi sulla branda...son stato sveglio fino al mattino, nel "castello" d'un "cavaliere" amico, guardando il torneo più importante del reame (il Super Bowl, ehehehe)

e tifando lo scontro, ingurgitando birra ed esultando ad ogni botta beh...son tornato un poco vivo.

certo, passeggera mascherina idiota...momentaneo antiinfiammatorio, una specie di specchietto per le allodole del mio scorgere.

Bardo, guarda e divertiti...oggi non pensare.

Massì, una sorta di vacanza.

lunedì 1 febbraio 2010

Un Muro Biancastro.

Un muro biancastro, ecco cosa vedo.
Se provo a dar forma al mio presente, ecco che mi trovo a rappresentare sulla tela dell’inganno un muraccio alto e spesso, liscio e candido di un biancume apatico. Né scritte né segni e questo rende inequivocabile la mia sentenza: non è il muro del Bardo.
Dove sono le tele, le pergamene, le vernici, i colori? Dove posso scorgere i tagli, i graffi, le picconate del verbo…dove?
Da nessuna parte…ogni singolo centimetro di questa muraglia insipida è bianco, liscio e vuoto.
Mi trovo dritto e impassibile a due passi da quel confine tra illogico e noioso, tra vero e falso; lo fisso impietrito ma con gli occhi sgranati e pieni di quella rabbia, finalmente, ritrovata. Tira un venticello beffardo che tenta invano di rendere festosa e carnevalesca la lugubre atmosfera, alzando qua e là petali, aghi e sabbia.
Coi capelli struscianti sul volto e le vesti impazzite, resto fermo e valuto il nemico.
Nessun cavaliere all’orizzonte, non c’è banda di bravi alcuna…niente da distruggere, nessuno da spadare, solo un muro da guardare;
parrebbe facile… ma per me, bardo guerriero votato alla lotta, in cerca, forse, più di un sacrificio intriso di vanagloria che di una reale vendetta, resta assai complesso il dover affrontare una cinta fatta d’apatia e rigore…una muraglia che gli altri dicono da me, nel sonno dei sensi, sia stata creata.
Razionale misurazione degli eventi? Spasmodica ricerca della redenzione? Forse accettazione?
Rido, scoppia una risata che mai così forte s’era sentita, perché di quelle parole neanche voglio far pensiero! No, no, no…niente arrendevoli consegne della dignità, chiamate in altro modo per imbellettarne la forma;
niente stucchevoli ritorni sui propri passi, per chiedere alla fanghiglia di accettarmi di nuovo tra le sue fila.
Fin qui son arrivato, di certo andrò avanti.
Ho errato per anni fra le pieghe della mente mia ed altrui, tra le spossate vicissitudini dell’umano divenire, intriso di curiosità e timore ho percorse tutte le strade a me possibili per capire chi avevo davanti e combatterlo.
Ho viaggiato in lungo e in largo, spada nella fodera e penna di nibbio alla mano, annotando ciò che imparavo, raccontando ciò che vedevo, cantando ciò che sentivo.
Non sarà certo un patetico muricciolo a fermare il mio cammino.
Quasi annoiato e col senso di veder ripetersi qualcosa tra le vene, prendo la rincorsa.
Attendo che la brezza invernale mi dia il segnale…al ché partirò correndo, con tutta la mia foga, spiccherò il più poderoso dei salti buttandomi anima e corpo contro quel muro.
Lo schianto darà fatale esito…per lui, ovviamente.
Il boato sarà tale che tutte le genti lo potranno avvertire, ma ancor più alto sarà il mio urlo, il solito urlo di battaglia, il più liberatorio degli sfoghi.
Come il falchetto attende fermo che gli venga tolto il cappuccio, per librarsi in volo a caccia di prede da smembrare, io aspetto di vedere quella insulsa parete cadere per mia mano…voglio solo questo, bramo solo di poter demolire quel muro bianco e laido, fatto delle mie convinzioni, delle mie illusioni…dei miei limiti;della parte ora inutile e scialba del mio animo.